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DA "URAGANO NEL LABIRINTO" Dimíter Ánguelov 3. Sebbene mutasse costantemente, era forse il paesaggio a far sembrare fermo e triste lo sguardo di lei... Mi sforzai di sorridere e feci un gesto largo: mi parve di toccare con la punta delle dita il centro della sua solitudine. - A che ci serve viaggiare? - mi arrischiai a rompere il silenzio. - So che la solitudine non è altro che la compagnia violenta delle cose sgradevoli, e se mi rifugio nella mia solitudine non è per un qualche gusto perverso - sto solo attento a non cadere nell’abisso. Perché la cosa più orribile è che questo abisso non esiste. Tuttavia questa solitudine è divenuta così friabile che ha cominciato ad accumulare il suo peso di sabbia in un tempo uniforme e irreversibile. E così sono arrivato ad innamorarmi di una malattia con un nome di donna. Del resto non avrebbe potuto essere altrimenti, perché tutte le malattie sono al femminile. Ma ho avuto fortuna, perché la mia felicità e la mia disgrazia coincidono entrambe con una cosa sola: la solitudine. Un giorno mandai a mio figlio un telegramma: “Tuo padre è morto sulla vetta di un sogno molto grande. Di solitudine fredda e vertiginosa. Tuo padre”. Ho poi saputo che mio figlio, dopo averlo ricevuto, era scoppiato a ridere, e non la smetteva più di ripetere “Tuo padre!”. Ne mandai un altro: “Tuo padre era un gran sognatore. Sognava l’impossibile, o meglio, non sognò mai: visse un sogno totale”, ma non ottenni risposta. E solo adesso, mentre la guardo, comprendo che, tutto sommato, la solitudine non è un fatto - è un atteggiamento. Non so se mi faccio capire... - Me llamo Soledad... - disse, e fu come se svanisse, impassibile e spaventata ad un tempo. Provai vergogna quando mi ricordai che la solitudine parla tutte le lingue ma non ne capisce nessuna. Io stavo parlando da solo. E non stavo neppure viaggiando.
5. - Mi vidi all’improvviso in un luogo desertico: non dico deserto perché c’era un muro alto due o tre metri, a forma di ferro di cavallo. Mi parve assurdo perché non impediva il passaggio di nessuno, e non proteggeva assolutamente niente. Un rifugio vuoto. E ancor più assurdo mi pareva il fatto di esservi entrato, dal momento che avrei potuto aggirarlo, perché si vedeva subito che era solo una barriera a se stesso, e che il senso gli era dato da quella curvatura. - È un simbolismo trasparente: è l’utero. Lei si sente in un deserto e cerca un rifugio, un rifugio che la protegga da se stesso, dal suo deserto. È una fuga dalla realtà, una regressione, se vuole. - Diciamo pure di sì. Ma la cosa più dolorosa è stata aver scoperto, sul fondo, un chiavistello: senza porta, senza serratura, montato direttamente sul muro. - Ciò significa che lei vuole incoscientemente arrivare ancor più lontano - non solo installarsi in quel conforto prenatale, ma superare le limitazioni della sua origine, trasformarsi in un istante d’eternità. - Non volevo superare niente di niente, avrei potuto benissimo tornare indietro, contornare il muro e continuare la passeggiata o la traversata del deserto, il che è lo stesso. - Sì, avrebbe potuto farlo, ma ha avuto la sfortuna di vedere, scoprire o inventare (il che è lo stesso) quel chiavistello. È l’unica ragione per cui continua a stare da questa parte del muro. Perché Lei, quel muro, lo porta comunque dentro di sé. Quello che le dà fastidio è che rimane sempre “dalla parte di qua”. Immaginiamo che riuscisse ad “aprire” quel chiavistello o quel muro. Lo attraverserebbe e si vedrebbe un’altra volta da questa parte, o distruggerebbe il muro e si vedrebbe obbligato a costruirne uno nuovo, cosa che richiede, come sa, una vita intera. - Lo so. Dunque che faccio? - Se dovesse sognare di nuovo quel muro non ci si infili dentro, non entri in panico, faccia il giro del muro e si svegli. - E se non riuscissi a svegliarmi? - Se non riuscisse a svegliarsi, sarebbe un uomo felice, perché questa è una morte facile. Evidentemente non avrà la possibilità di fruire di questo piacere, ma se ne fosse cosciente, sapendo che sarà così, potrebbe addirittura arrivare a superare la paura della morte. - Paura della morte io non ce l’ho. è della vita che ho paura - per questo ritorno sempre a quel muro, a quel rifugio. Ma è un rifugio che mi accoglie - come lei dice - da una parte sola. - In questo caso, dev’esserci qualcos’altro. - Ho trovato. Manca molto, a quel muro, un piccolo fiore. Sarebbe la cosa più naturale. - Si dimentica che il muro si trova in un deserto. - Anche nel deserto ci sono fiori. - In questo deserto, no. E, quando ci sono, appaiono sotto un’altra forma. Magari, chissà, sotto forma di muro. - Non esistono fiori così grandi... Neppure in sogno... - È un fiore che si costruisce durante tutta una vita. - Ma non ha detto, poco fa, che era un muro che io avevo già costruito? - L’ho detto, ma lei ha confuso due cose. Mentre si aspettava di vedere un fiore le sembrava solo un muro. Ma quando l’ha trovato, era simile a un muro. - Va bene, sia pure, almeno adesso so cosa mi sta succedendo. Dunque per uscire di qui devo contornare questo muro; e poi dove devo andare? - Qui non c’è nessun muro, questa è casa sua. Dove andrà in seguito lo si potrà sapere solo nel prossimo sogno! Ma almeno sa che quel chiavistello, o quel muro, per il momento non si aprono.
6. Immaginate una stanza arredata come volete. Immaginate una donna sulla cinquantina, seduta, che guarda verso un punto come se stesse ascoltandone la melodia. Sarà lei il nostro personaggio, che osserveremo durante una o due pagine. Di lei non sappiamo nulla - dobbiamo dedurre tutto dai suoi movimenti e dai gesti, perché non parla. Si alza e si vede che è una donna alta e robusta. I suoi movimenti sono un po’ pesanti. Entra in cucina, si avvicina all’acquaio e riempie mezzo boccale, va verso la stufa a gas e ne versa la metà in una pentola. Torna indietro e butta il resto nell’acquaio. Vi si appoggia, ancora con il boccale in mano, e sembra che si ricordi di un antico amore. Ritiene di aver dato a quella persona più di quanto avrebbe dovuto, si riavvicina alla pentola, ne toglie con il boccale un po’ di liquido e lo getta nell’acquaio. Riempie poi un’altra volta il boccale, fino a metà, ma ne versa solo metà nella pentola, mescola con il cucchiaio e si allontana. Si avvicina ad una cartolina girata al contrario, ne legge le poche righe con una tranquillità che dimostra come le conosca già molto bene. È una verità lontana, alla quale non può opporsi. Ritorna in cucina, e i suoi movimenti tra il rubinetto e la pentola acquistano la regolarità di un rituale. Ma noi perdiamo la nozione di che cosa e di quanto versi e tolga: probabilmente lo stesso succede a lei e fa un piccolo intervallo. Ritira dalla tasca un fazzoletto bianco e lo dispiega con grande attenzione, come per non farne cadere l’oro in polvere che non si sa in quale piega sia rimasto. Ma no, comincia a soffiarsi metodicamente il naso, poi osserva le macchie di sangue: non riconosce il suo sangue, le sembra una sostanza appartenente ad una malattia autonoma - sinusite. Sarà sinusite? Sarà sangue? Dove lo ha già visto, questo sangue? Qual’è il suo significato? Queste probabili domande le si presentano con tranquillità, sono domande provocate dai gesti. Nient’altro. Adesso comincia a ripiegare il fazzoletto, una, due, tre, quattro volte. Attenzione, stiamo contando! Sei volte. Si potrebbe pensare che nutra una qualche ossessione per il numero 64: ha già fatto 64 quadratini. O sarà una specie di scacchiera per un unico giocatore? No, niente di tutto questo. Semplicemente, non è possibile piegarlo ulteriormente, e così il problema della sinusite rimane in sospeso. Si dirige nuovamente verso la stufa, solleva il coperchio della pentola, apre una porta e dice: (finalmente dice qualcosa): “È evaporato tutto”. In quel momento appare alla porta una piccola nube: no, un mulinello di nebbia verticale. L’avvolge, e spariscono tutti e due. È un lieto fine, perché questo è stato un altro tentativo di bilancio finale. Apparentemente si è sbagliata solo nella proporzione, nell’aggiungere e togliere, ma il caso o il destino le hanno ritirato quel peso dalle mani e dall’anima. Non è più personaggio. E così noi ci troviamo improvvisamente in una stanza altrui, e la cosa più corretta da fare è uscire rapidamente dalla storia.
9. Scagliò uno strumento di tortura contro la parete, che non doveva essere precisamente una parete ma lo sembrava, e, liberatosi apparentemente da tutte le intimidazioni, gridò: - Potete uccidermi, ma io non mi ricordo niente! - Qui all'Inferno non uccidiamo nessuno - è solo una specie di psicanalisi: vogliamo capire che cosa ti ha indotto a commettere tanti sbagli e a finire qui. Che ti è successo durante l’infanzia? Siamo dei semplici funzionari e ne abbiamo già viste di peggio. - Ma che accidenti di psicanalisi è questa? Se vi dico che non mi ricordo niente... Non mi ricordo più neppure della vostra domanda. Io non ho avuto infanzia, né adolescenza né maturità. Ho avuto solamente un trasferimento da qualche parte a qui. - Allora qual’è l’ultima cosa di cui ti ricordi? - Non c’è una prima cosa né un’ultima. Mi ricordo solo di una frase: “Non è ancora possibile rispondere alla sua chiamata”. - Ah, capisco: anche la telefonista ci è passata fra le mani. - Non doveva essere la telefonista ma la segreteria telefonica - disse un’altra voce. - Abbiamo torturato anch’essa, e sembrava che pure lei non ricordasse niente - ripeteva sempre la stessa cosa: “Non è ancora possibile rispondere alla sua chiamata”. Come vi assomigliate tutti voi, uomini, telefoniste e segreterie telefoniche! - Ma che assurdità, che situazione cafchiana. Lasciatemi in pace! - Kafka è ancora da queste parti. - Ma di che cosa state parlando? Cos’è questo “cafca”? - Non sa cos’è questo “Kafka” e parla di “kafkiano”? - Sono solo un tassista... - Ah, finalmente se n’è ricordato. E non ti ricordi di aver trasportato qualche volta un certo Kafka? - Non domando il nome ai clienti. - Non è necessario. Lo riconoscerebbe chiunque! - Ma che incubo... non finisce più! - Non è un incubo! Magari per te lo fosse! Qui tutto è reale!
- Per il pagamento dell’Imposta sul Rendimento delle Persone Fisiche! A chi tocca? Svegliate questo signore! - Sono sveglio. Dove sono?
10. Vagando nel cimitero centrale di un paese immaginario, rimasi sorpreso da una lapide che diceva: “Qui giacciono due scheletri che non sono mai riusciti ad incontrarsi, ma che avrebbero potuto essere molto felici”. Un poco più avanti lessi un altro epitaffio, su una lapide anch’essa senza data: “Nacque per dormire. Si svegliò per morire”. E, accanto a quella: “Qui dorme una verità che, risvegliata, sarebbe una grande menzogna”. Era dunque un cimitero di grandi verità immortali. Fui preso da una tristezza straordinaria, e cominciai a ripetere a me stesso: “Non sentirti triste, non sentirti...”. Ma ad un certo punto sentii che quella voce non era più la mia, e una tristezza ancor più profonda, ancor più scura e più densa si impadronì di me. Per qualcuno che non conoscevo e che gridava il suo dolore così da vicino. E mi sentii indifeso e mi infuriai e gridai a caso, feroce: “Basta!”. E sentii un sollievo felice, una beatitudine. Mi trovavo di fronte a un’enorme lapide di marmo bianco, con una zanzara di due metri di lunghezza e, sotto, due lettere: C.S. Non riuscii a reprimere la risata. “Era un uomo bizzarro” sentii dire da una voce condiscendente. “Comprò una tomba al cimitero per seppellirvi la zanzara che aveva ucciso il giorno stesso del funerale. E, com’è chiaro, le diede un nome d’uomo...” Il cimitero era il più bello dei giardini. “Il più bello dei giardini?” - pensai. “Ma chi può dire un’idiozia del genere?!” “Per gli uomini non c’è correzione possibile - nemmeno dopo la morte! La luce scenderà su di te!” disse una voce celestiale. “Lo so benissimo” risposi, ancora irritato. “Mancano poche ore al nascere del sole...” “Come sei incorreggibile nella tua ostinazione!” Un forte proiettore m’inondò di luce. Il guardiano (o il becchino?), che mi osservava con ostilità, lasciò cadere la chiave del portone quando domandai: “È stato lei a parlare come un cherubino o un serafino? Non li distinguo molto bene... prima della morte”. “La morte non esiste. Fuori di qui!” “Si sbaglia”, gli dico io. “La morte esiste anche fuori di qui. Esiste dappertutto. Se lo seppellisca in testa”. Lì per lì rimase pietrificato, ma subito dopo cominciò a tastarsi la fronte come se si trattasse di una lapide sommersa nel buio, tentando di decifrarne l’epitaffio. Poi fece un mezzo giro e continuò la lettura a tastoni nell’aria, muovendosi al ritmo della decifrazione finché non lo persi di vista.
14. Iniziai l’educazione stilistica di mia figlia Eulalia quando era ancora una bambina. Più precisamente, quando scrisse la sua prima “composizione”. - Tesoro - le dissi con molta tenerezza, e le arrotolai la treccia con l’indice, formando un bel punto interrogativo. - Non avevamo scelto il tuo nome a caso, ma dal momento che non hai una grande inclinazione per l’espressione orale, devi essere impeccabile quando scrivi. E, emozionato com’ero, quasi non aggiunsi nient’altro. Si sa che i bambini, per natura, sono diretti, e non apprezzano le parole composte, orientandosi piuttosto in base alla legge di causa ed effetto. Lei diceva: “Ci piacciono i gatti perché sono belli”. Ebbene, quel “perché” distruggeva tutta la bellezza della frase. - “Ci piacciono i gatti in funzione della loro bellezza”. - “Disprezziamo i ladri perché...” - No! - l’interruppi. “Disprezziamo i ladri in virtù della loro malvagità”. - “Voglio bene allo zio perché mi porta a spasso, anche se non mi piacciono quei posti”. - No, no. Viene meglio così: «A dispetto del bene che nutro per lo zio, non mi piacciono i luoghi per i quali passeggiamo»”. - “Mi fanno compassione i poveri...” - Alt! “Mi fanno compassione i poveri grazie...” - “Grazie alla loro infelicità”? - Esatto! - Esatto?! Ma papà, come puoi dire una cosa simile? - Tesoro, lo stile esige sacrifici! - E le spiegai tutto il resto. Nonostante la leggerezza con cui sollevò quella prima ed ultima obiezione, oggi possiede uno stile irreprensibile. Nella sua scrittura non si troverà mai un solo “perché”. E, tuttavia, sento che le manca qualcosa. Perché? In funzione del mio dubbio ho il presentimento della causa, ma in virtù dello stile personale, mi sia concessa la contraddizione, so che è grazie allo stile che sopportiamo ciò che, a dispetto della verità, consigliamo agli altri!
23. A quanto pare mi sono smarrito nelle mie divagazioni, e mi vedo mentre cammino per le steppe del Tibet. Da una curva, a dieci metri di distanza, spunta una ragazza sui quindici anni, dagli occhi semichiusi di paura. Si ferma e sembra quasi che smetta di guardare, senza per questo chiudere gli occhi. Mi siedo a terra, strappo il fusto di una pianta e le faccio segno d’avvicinarsi. Lei fa alcuni passi timidi e inaspettatamente mi si siede accanto. Le sfioro il viso con la spiga, ma lei rimane immobile nel suo stupore. Poi strappa anche lei una pianta e mi rende la stessa carezza. So che non si tratta di tenerezza - pensa forse che sia un rituale di quei barbari di cui io sono, per lei, il primo rappresentante. Sorrido, poi rido forte per esprimere la mia contentezza. Non le posso dir niente, in nessuna lingua. Qualcosa ci separa implacabilmente. Non mi resta che ritirarmi senza guardare indietro - sospiro profondamente per convincere e commuovere tutti e due. E mentre mi allontano vedo che la mia divagazione è stata grande, e la steppa molto piccola: mi trovo al centro di un tappeto persiano, ma non vedo la ragazza. C’è appena una spiga, che non so come sia finita qui. Adesso capisco la paura della ragazza: è un incontro molto lontano, in qualsiasi circonstanza e tempo in cui cerchiamo, per il suo bene, di distrarre la memoria.
25. Con il passar del tempo, un tempo vago e indeterminato, Adamo e nostro Signore divennero amici e, dato che nessuno dei due aveva mai avuto un’infanzia, tutti i giorni inventavano un gioco nuovo, un passatempo sempre piacevole, perché il cattivo gusto non esisteva ancora. - Oggi ho voglia di creare animali - Egli disse, e diede un colpetto sulla spalla di Adamo. - Animali? Non capisco... - Cose animate dall’anima, cose che si muovono... - Ah, sì... che hanno un fuoco che le fa muovere. - Assolutamente no: il fuoco fa muovere solo chi gli si avvicina molto. - Va bene, va bene - concordò Adamo. - E come si fa? - Non “si” fa. Chi lo fa sono Io. - Ma come farai, se non ne hai mai visto uno? - Si fa così: diciamo consonanti e vocali a casaccio, e poi si vedrà. - E se l’animale dovesse ripetersi? - Lo uccidiamo. E cominciarono a pronunciare e a creare e si divertivano un mondo. Poi il Signore si limitava a dire “Vattene via”, e Adamo spingeva l’animale con un “Che Dio sia con te!”. - “Gatto” - disse Adamo. - Questa meraviglia mi appartiene: non toccherai questo animale neppure per fargli una carezza. “Cane!” - Questo lo voglio io; guarda che bello sguardo ha! Se mi chinassi accanto a lui sull’acqua direi che siamo una cosa sola, in duplicato. - Puoi tenertelo, ma lontano da qui - quasi quasi mi pento di averlo creato. Pazienza... - “Pipistrello” - disse Adamo. - Va’al diavolo! - esclamò il Signore, rabbrividendo. - Come hai detto? Che vuol dire “diavolo”? - Non lo so bene. È qualcosa che a volte sento dentro di me. - Mi sa che non è un animale... “Ateo”. - Questo è peggio del diavolo e di te messi insieme. Che tu sia maledetto. Fra noi è tutto finito. E lo abbandonò in mezzo ad una moltitudine di animali che, fino ad allora, si erano intrattenuti in perfetta armonia. Ma quando il Signore si allontanò cominciarono a ruggire, a grugnire, a ringhiare, a ululare. Per la prima volta Adamo sentì qualcosa di molto strano e gridò: - Ho paura! E si spaventò ancor di più dopo quella parola, perché non sapeva esattamente cosa volesse dire. Allora il cane gli si avvicinò e cominciò a leccargli la mano. Adamo sentì il calore e si rilassò un po’, lo abbracciò e cominciò a piangere. Vide cadere in terra alcune gocce e guardò il cielo. Non pioveva, ma lui non sapeva ancora che stava piangendo. Commossi, o per un’altra ragione qualsiasi, gli altri animali si allontanarono e lasciarono in pace quelle anime gemelle. Una pace solitaria, mezzo canina e mezzo umana. Finché un giorno venne a piantarsi di fronte ad Adamo l’animale più strano ed affascinante, e disse con perturbante naturalezza: - Sono io, Eva...
41. Stavo sognando un terreno scosceso e scivoloso, quando squillò il telefono. Prima che potessi identificarla, la voce disse: - Ho urgentemente bisogno di un racconto. Breve. Non più di tremila caratteri! - Ma lei saprà che non scrivo racconti... - Lo so, ma non importa. Non deve raccontare niente, basta che sia una narrazione. - Se è così, mi dica solo una cosa: dev’essere una storia di persone, di animali o di fiori? - Fa lo stesso, purché sappiano parlare o fare imitazioni. - Ma lo sa che c’è un’erba che i cani hanno l’ abitudine di mangiare quando sono malati, e che ce n’è un’altra che i gatti mangiano quando... Del resto, lì dietro alla tipografia, in quel terreno abbandonato, ci sono tutte le specie di erbe. Lei stesso potrebbe... - Non voglio saperne, di erbe. Stiamo parlando di narrazione. - Appunto. È che certe erbe, quando ingerite dagli animali, provocano allucinazioni, e se essi sapessero scrivere... Persino lei potrebbe scrivere una narrazione se sperimentasse certe erbe... Alcuni scrittori l’hanno fatto, e con sufficiente successo. Ci pensi su, mentre parliamo. - Io non sono un animale, e certe cose non posso pensarle. - Ho trovato. Non dica più niente. Il racconto comincia così: “Erano le quattro del mattino, quando il telefono squillò”. Il resto è conversazione. La nostra. Non dica altro. Neppure “arrivederci”. Stiamo per superare i tremila caratteri. Il titolo è a sua scelta. È irrilevante. Glielo mando immediatamente! - Non capisco... - Non importa - risposi senza convinzione, e misi giù il telefono. È stato difficile riprendere sonno dopo un episodio così breve, e mentre pensavo alla brevità mi sono venute in mente una mezza dozzina di storie, molto lunghe, molto differenti, molto realistiche. Ma ormai era tardi per la narrazione. La realtà stava bussando alla porta e voleva far colazione con me.
52. Che idea sbagliata abbiamo noi della morte! L’ho sorpresa mentre dava una pedata sulla tomba di un bambino, e un’altra volta su quella di un vecchio, con un sorriso perverso, avido di tormentare una memoria già placata, disfatta. E chi mai si ricorda di questo potere magico della morte - resuscitare memorie che, in un modo o nell’altro, aveva già ucciso, per continuare la sua opera macabra? L’ho anche sorpresa mentre sistemava, con la sua mano invisibile, fiori di campo su quelle stesse tombe - malinconica, abbattuta, pentita. E mi sono intenerito di fronte ad una così grande incapacità di decidersi tra il male e il bene. E una volta le ho gridato all’orecchio:- Il tuo dramma è enorme! E lei ha riso con un riso stridente, un riso d’ululato, d’agonia, che ha fatto cadere dal cielo fiocchi di muffa azzurrognoli, violacei, verdi - un veleno che lei raccoglieva sorridendo disperata, sapendo che qualunque tentativo di suicidio era condannato al fallimento. La morte! Ombra immortale! Quanto poco sappiamo della storia del tuo peccato e del tuo pentimento...
59. - Quanta tristezza, quanta desolazione in questa frase:“Voglio essere ottimista...” Quei punti di sospensione sono così lunghi, a volte, che arrivano fino ai confini del nostro paese, e tornano indietro più tristi di prima. “Voglio essere ottimista...” Sono pochi quelli che usano il punto esclamativo; del resto, quando lo usano, è per paura, non per allegria. E sempre seguito dai punti di sospensione. Quanta fatalità in questo desiderio! Ma perché le persone vogliono tanto essere ottimiste? Che ossessione sarà questa? Non l’ho mai capito. O si è ottimisti o non lo si è. Alcuni vorrebbero avere gli occhi azzurri o marroni, o addirittura gialli. Ma questo posso ancora capirlo. - Ha una certa ragione. È peggiore di qualunque altra “dipendenza”. Un individuo vuole ubriacarsi e beve - niente di più facile. Vuole drogarsi? Non dev’essere molto difficile. E, se i soldi non gli bastano per comprarsi la droga, mette la musica a duecento decibel. È quasi la stessa cosa. Ma chi vuol essere ottimista non sa far altro che avvolgere e riavvolgere il filo del desiderio. E questo filo interminabile se lo sgomitola da dentro, finché la sua anima non si riduce alle dimensioni di un baco da seta, vi si aggroviglia e finisce per chiudersi in una specie di bozzolo malfatto, ripetendo continuamente “voglio essere ottimista...” Finché il sonno o qualche altra cosa non lo porta in una zona neutrale... - Esattamente: e cosa fa tutta questa gente, quest’esercito dell’ottimismo? Si installa in associazioni, partiti (spesso sospetti, o peggio), in unioni e cooperative, organizza gruppi culturali, partecipa ai concorsi, si riempie la testa di numeri, dati statistici, si sfibra cercando di localizzare l’ottimismo, deambula senza pace con un’unica idea: “voglio essere ottimista...” Un ideale che tutti sospingono ogni volta più lontano. E un bel giorno si ritrovano davanti un muro invalicabile - la realtà. Poi cominciano a domandarsi, gli uni agli altri, che cos’è la realtà. E nessuno lo sa dire di sicuro. Si accorgono soltanto che non c’è più differenza fra l’ottimismo e il pessimismo, e che tutto è un errore. Entrano in panico e non la smettono più di parlare ad alta voce, vogliono essere più forti del più potente degli altoparlanti. Ma non serve. Ascolti questa cosa così rara - questo delizioso silenzio... Secondo le statistiche, questo nostro popolo sta diventando ogni giorno più sordo. Tutti gridano senza riuscire a sentire la loro stessa voce. Si sarà certamente accorto che nove persone su dieci cominciano il loro discorso con un “mi stai a sentire?” Anticipano tutto, non solo la risposta, ma anche i loro stessi pensieri. E perché lo fanno? Perché vogliono dimenticarseli, i loro pensieri... Perché sanno che possono desiderare d’essere ottimisti solo scordandosi dei loro pensieri. Ma c’è dell’altro, e ancora più grave: gridano così tanto che perfino gli uccelli canori stanno diventando sordi. Gli uccelli non cantano più come prima - ormai non cantano, gridano. - Dipende dal tipo d’uccello - dico. - Anche questo è vero. Ma mi domando: “Dove andremo a finire?” - Di fronte a quella parete che nessuno ha mai visto... - Indubbiamente. Un bel giorno avremo un pianeta sordo. Per quanto mi riguarda, preferirei vederlo muto. - Tutto muta - diciamolo laconicamente. Si è pessimisti per filantropia e ottimisti per indifferenza. Il pessimismo sopravvive da solo, non preoccupiamocene. L’ottimismo, invece, è un’indifferenza strana, che non si raggiunge immediatamente. L’ottimista ha sempre bisogno di soci, di alleati, di sostenitori. L’indifferenza esige un suo tempo di maturazione, impone una serie di piccoli ritocchi di rifinitura. Siamo generosi, diamogli questa opportunità di trasformarsi in quello che in realtà è. Tutto muta. - Lo spero bene. O meglio, non ci spero molto, ma voglio essere ottimista... Oh, mi scusi. - Non fa niente. A che ora è la riunione?
76. È una nave enorme - nello scorcio che si apre fra gli edifici, il mare sembra minuscolo. Dev’essere una nave da guerra: è marrone o caki, ha innumerevoli antenne, ed ogni tipo d’escrescenza, è troppo “quadrata”. O magari è un sottomarino. Non si muove. A quanto pare, è ancorata nel golfo. All’improvviso la nave parte ad una velocità sorprendente, e per poco non la perdo di vista. No, non è una nave. È un cittadino con un mucchio di cartone sulla testa, che stava osservando la sostituzione dei tubi delle fognature. Ha già saziato la sua curiosità. E adesso continua sulla sua strada. Ma non ha fretta. La sua destinazione è quel camminare, poiché al giorno d’oggi la carta straccia non rende niente. Si tratta dunque di camminare, di trasportare il destino da una parte all’altra. Cambiare le carte in tavola senza preoccuparsi della carta. A conti fatti è una nave, una nave perduta nel mare largo dell’indifferenza.
80. Mi sedetti in riva al mare, in attesa dell’ispirazione. Non era passato molto tempo quando vidi una piccola macchia bianca all'orizzonte. Si muoveva, e si avvicinava. Non potevo perdere quell’occasione. Quanto tempo sarò rimasto lì? Vent’anni, forse trenta. Non me ne ricordo più. Nel frattempo mi sono sposato, laureato, rovinato nel commercio o forse no. Avevo già quattro figli (figli orfani, come mi dissero poi), e parecchi nipoti. In poche parole: l’ispirazione mi aveva incantato. Un incantesimo che la voce di lei ruppe: - Che cosa stai guardando? - Cos’è questa cosa di fronte a me? - domandai a mia volta, spaventato. - Una pagina bianca. Formato “A4”. - No. Non avrei potuto avvistare una pagina bianca a una distanza di migliaia di miglia, a una distanza di venti o trent’anni. Poteva essere solo l’ispirazione. Ed è possibile che abbia aggiunto: “Niente mi ha mai ispirato tanto quanto l’ispirazione”, perché ho trovato accanto a me quest’annotazione, scritta di mio pugno.
© Dimíter Ánguelov |